Dell’etichetta parigina, ancora una volta, mi sono occupato non molto tempo fa, sulle consuete pagine del consueto mensile musicale. A gestirla ci pensa Jonathan, che da parte sua suona anche nei Placenta Popeye (per loro in uscita un book+cdr targato proprio Le Dernier Cri), e ogni tanto a dargli una mano ci pensa Jonas, dalla sua artista visivo/fumettista ecc, che cura una minuscola fanzine chiamata Nazi Knife e che fa qualche comparsata anche sull’ultimo Hopital Brut.
L’ultimo cdr in catalogo è quello di Nonhorse, da Brooklyn, ai più noto col vero nome di Gabriel Lucas Crane, già nei Wooden Wand & The Vanishing Voice. Se avete presente i suoi materiali apparsi su Release The Bats e Fuck It Tapes, o se conoscete un minimo il personaggio, potete immaginarvi i contenuti anche di questo piccolo gioiello di packaging homemade (confezione in cartone che una volta che la apri spunta il “pop up”: avete presente quei libri per bambini, no?): ecco allora un’elettronica semirock improvvisata, molto scarna, grezza e sgraziata, e ovviamente non di rado psichedelica, che ogni tanto fa pensare a qualche concretismo abbrutito, e ogni tanto si diluisce in lente, nebbiose, figure sullo sfondo. Crane parla di Nonhorse come di un “Philip Glass crossed with atari 2600 or the sound of a million fingers on a million chalkboards”: solite definizioni altisonanti che non significano niente e che per questo dicono tutto. Da parte mia, in questo “My First Moth/Gun Tears” mi è parso addirittura di sentire echi del Roberto Cacciapaglia periodo “Sonanze” (ascoltate Hollendek DDD), e di sicuro posso dire questo: 100 volte meglio Nonhorse che una qualsiasi cosa a firma Vanishing Voice.
E adesso tutti a Parì.
Da ieri, la trevigiana Long Long Chaney non esiste più. Niente per cui rattristarsi, per il semplice fatto che a sostituirla ci penserà una nuova etichetta chiamata – a quanto pare – Second Sleep, le cui prime uscite sono già dietro l’angolo. E però ugualmente mi dispiace, se non altro perché io,
Tre nastri, quindi. Il primo è un po’ vecchiotto (risale, se non sbaglio, alla fine del 2006), ma è il mio preferito e quindi non posso che cominciare da lui: il canadese Bob McCully, meglio noto come Women In Tragedy, è una specie di versione doom degli Skaters. “Daughters of Isolation” si apre con un lato A che è un guazzabuglio di voci e sfuriate noise in lontananza, registrato malissimo e per questo ancora più cattivo, piacevole come un dissanguamento forzoso. Il lato B parte come un mantra vocale che monta lento su spirali vieppiù rumorose, la grana diventa più spessa, i delay si allungano, e alla fine a restare è solo una nebbia malefica. In giro ho scovato paragoni con Xasthur e Leviathan, il che in fondo ci sta tutto: le atmosfere in fondo sono quelle, un’eco distorta di black metal passata in centrifuga e messa ad essiccare al buio, qualsiasi cosa voglia dire quanto appena scritto. Grandioso.
Knife City è un altro progetto da considerarsi concluso (il tipo, tale Brenden, è al momento impegnato come Drenches e suona anche in gruppi con nomi quali Caged Virgins, Abysmal Rain e Certain Failing). Il suo “Swoon Tree” è una prova abbastanza classica di pura power electronics old school: venti minuti di fischi e rimbombi, che se su un lato procedono per ronze tendenti all’infinito, dall’altro vanno molto più a singhiozzo, incartandosi in pause, spezzettamenti e balbuzie da giorno del giudizio. Brenden sostiene di essere influenzato soprattutto da Lasse Marhaug e Pain Jerk, ma secondo me un poster in camera di M.B. e Mathausen Orchestra ce l’ha.
E infine veniamo al padrone di casa, Kam Hassah. Delle tre cassette, quella a suo nome (“Heavy Curtains” il titolo) è quella che ascoltato di più. La musica di Kam Hassah è un soffio pesantissimo che pare fatto di nulla, tutto un fluttuare sottotraccia di fuliggine e polveri sparse, che per comodità potremmo ridurre alla voce “dark drone”. Va ascoltata a volume alto per comprenderne le trame e i giochi di ombre, eppure il sottoscritto preferisce tenersela in sottofondo, e anzi, posso dire che proprio in questi giorni – passati, per motivi che non sto a spiegare, a ripassare argomenti quali Kriminal, Umberto Lenzi e Antropophagus – è stata una colonna sonora ideale. Chissà se l’ex signor Longlongchaney, futuro mr Second Sleep, apprezzerà. Intanto date un’occhiata qui, se volete vederne le gesta dal vivo.
Il primo cd è di Vankmen: speedcore a manetta, gabber a velocità quadrupla, e come parentesi un po’ di frequenze ultradistorte; il pezzo più lungo dura due minuti e quarantacinque secondi ed è una specie di suite coattissima con in mezzo grugniti, rullate breakcore e sfuriate industrial.
Atmosfere appena un po’ più composte (si fa per dire) per Mincement Or Tenspeed, che almeno tiene i bmp sotto soglie decenti e armeggia più che altro con una forma di rozzissima elettronica homemade mai troppo urticante (voglio dire: per chi almeno questi suoni li frequenta). A suo modo, persino musicale: ascoltatevi Queen Bee.
I Tik//Tik fanno una specie di industrial music demenziale, ogni tanto c’è persino qualche traccia di canzone (Jazz Piggy), e chiudono con una No Rest in due parti che è puro caos trashissimo.
Gli Unicorn Hard-On sono praticamente il motivo per cui ho comprato questa raccolta, e come al solito non deludono: due lunghe tracce di nove minuti l’una, assurdiste e colorate, tutte saltelli e suonetti scemi, un po’ videogame un po’ psichedelia per infanti. In mezzo alle brutture contenute negli altri cd fanno un’impressione strana, direi di tenerezza – e meno male che ci sono, dico io.
Realicide è un altro cafone che fa shit-electro tutta drill e crash e bum e bam. Da segnalare una traccia numero sei piuttosto stralunata, lenta e con un che di blueseggiante (più o meno), che lo fa assomigliare a una versione amatoriale di Foetus.
Poi: da uno che si fa chiamare Toilet e che riempie il suo
Nero’s Day at Disneyland è un altro schizzato che ha pubblicato anche su Cock Rock Disco, il che più o meno lo avvicina, se non altro per attitudine, allo stesso The Toilet, anche se qui il suono è molto più incastrato e barattoloso rispetto a quello dello svedese succitato. Non male, ma un paio di anni fa mi avrebbe divertito di più.
Gli Eustachian sono un altro progetto un po’ speedcore un po’ cazzeggio-music, che è un po’ la controparte elettronica della merda-music inventata dal famigerato Federico Savini sulle pagine di un noto forum musicale italiano, e che adesso vanta persino una room clandestina dalle parti di Soulseek. In sé le nove tracce del loro
Così, quando arriva la volta dei Beach Balls , e alla prima traccia vengo aggredito da una scarica di power electroncis a 600 bmp, non reggo più. Fortunatamente quello che segue varia tra parodie hip hop (una cosa intitolata, curiosamente, Skip This Track: Seriously) e allunghi drone-subliminali (Case Sensitivity), prima di chiudere con la solita sfuriata harsh a titolo Funky Punch, che dalla sua vanta anche una coda simil-electro.
Che dire, è interessante notare il flirt, non ancora sbocciato appieno, tra i sottoboschi di area (sommariamente) out-noise e le frange più deliranti di certa musica digitale. Il periodo d’oro dei vari Jason Forrest, lo stesso Von Schirach, e perché no Passenger of Shit è passato da un po’, ma lo sposalizio era nell’aria. Senza contare che