RANDOM DELICATESSEN
musiche brutte
lunedì 30 aprile 2007
Air Conditioning - Weakness (Level Plane, 2004)
Sto ascoltando il nuovo Air Conditioning, "Dead Rails", giusto in uscita su Load. Sembra un buon disco, ma ne riparlerò a tempo debito altrove. Intanto però devo ammettere un pizzico non di delusione, ma forse di leggero rimpianto, al pensiero di quel mastodonte chiamato "Weakness" e uscito tre anni fa senza che quasi nessuno, ahimé, se lo filasse (almeno da queste parti, ben inteso). Rimedio, per quel che può valere, qui. Perché "Weakness", nel genere, resta un grandissimo disco, senza se e senza ma.
Gli Air Conditioning sono in tre e vengono da Allentown, Pennsylvania (la stessa città cantata da Billy Joel in "The Nylon Curtain", il suo album migliore: avrete senz'altro presente). Il sito della Load, che al solito non lesina in paragoni ad hoc, tira fuori i nomi di Starfuckers e Mainliner, ma be', non c'entrano molto con i primi, e in fondo condividono poco con i secondi. Quello degli Air Conditioning è un guitar noise devastato e devastante, cattivo, tellurico, e sostanzialmente anche piuttosto demenziale. I suoni sono sempre saturi, tutto è distorto e avviluppato, l'indole è allegramente ottusa, e alla fine non resta molto se non una massa atroce di rumore arrugginito. Il paragone più calzante, per dire, mi sembra quello coi primi (e ultimi) Sightings: solo che gli Air Conditioning osano là dove i newyorchesi nemmeno hanno tentato. Già il primo album, "I'm In the Mountains, I'll Call You Next Year", allungava i brani fino al parossismo, ma in fondo i tre ancora si tenevano a bada. Con "Weakness" invece la misura è colma: il brano d'apertura, Accusation Denial Denali, è una scheggia di un minuto da bolgia metropolitana, schizzata come da copione. Ma quando arriva Baby With a Graphite Soft Spot, maledizione, è una vera tortura: ventitré minuti di passo cingolato sfiancante, definitivo, una cosa che per certi versi è persino difficile da credere. Le lunghe distanze, lo sappiamo, sono quasi la regola in taluni ambiti "out". Ma qui non si tratta né di drone lasciati andare all'infinito, né di improvvisazioni parapsichedeliche: semmai a uscirne è una marcia folle, lenta, assatanata e ultramuscolare, che deborda da tutte le parti, secca e squadrata nelle strutture, affilata e lancinante nella forma. Ascoltarla a tutto volume per intero, conduce a una sorta di trance velenosa, rincretinita, che sa di rito barbaro nel pieno dell'Impero in rovina. Un'allegra e sguaiata orda, ecco. Che nella successiva Welcome to the Seaworld contempla anche parti di elettronica abbrutita, prima di assomigliare infine a una versione ancora più grezza degli Arab On Radar periodo "Soak the Saddle", qui stirati e mandati in loop fino allo sfascio totale, con in mezzo pure grugniti simil grind in salsa cartoon.
Spero solo che, visto il nuovo album, il gruppo passi anche in Italia. Il buon Michele Arzano, che li ha visti dal vivo nella sua Chapel Hill, me ne ha parlato come di tre camionisti ciccioni e sporchi di birra, ma poi concludeva con un tipico ritratto da epica noise: "Quando sono partiti, le frequenze erano talmente violente che il pubblico è stato spazzato via, i bassi sbudellavano la pancia" ecc ecc ecc. Insomma, avete capito il genere.
Ah, un'ultima cosa: non fate caso alle recensioni che trovate in giro, cose tipo "Metal Machine Music è già stato fatto", "non si capisce dove vogliando andare a parare" ecc. Sono tutte frutto di un'incomprensione a monte: gente che a leggere il nome dell'etichetta, Level Plane, si aspettava l'ennesimo disco postcore/punk, e invece si è ritrovata per le mani un monumento al devasto puro e semplice. Poveri loro. Ovviamente, a rimediare ci ha pensato la Load.
domenica 29 aprile 2007
Sword Heaven/Lambsbread - Split (Lost Treasures of the Underworld, 2007)
Trecento copie, copertina amatoriale firmata Aaron Hibbs, un lato a testa. Questi i dati tecnici dello split tra Sword Heaven e Lambsbread, uscito per un'oscura etichetta della quale ignoro tutto, e che probabilmente non pubblicherà mai altro in vita sua.
Piuttosto, il trio dell'Ohio conosciuto ai più come Lambsbread mi ha sempre lasciato - per usare un eufemismo - perplesso. Due chitarre e batteria, per una specie di hard rock psichedelico venuto fuori alla come viene, del tipo droghiamoci, improvvisiamo, e vediamo che succede. Le tante recrudescenze tardo-hippie che hanno preso a infestare i gironi underground, ogni tanto prendono anche di queste pieghe: come dei Jerry Garcia per poveracci, Zac Davis e Kathy O'Dell (questi i nomi delle chitarre) si perdono in improbabili assoli pseudoacidi, evidentemente stanchi del sano vecchio feedback che, da certe parti, rappresentava per assunto la cifra della sei corde (immagino che abbiano pensato: ehi, questa cosa l'abbiamo pagata, perché non la suoniamo invece di buttarla davanti all'amplificatore e basta?). So che Thurston Moore è un grande fan dei tre, ma so anche che dei gusti di Moore non c'è molto da fidarsi (vedi alla voce Mouthus, Magik Markers & co.)
Ma va bene. D'altronde non era dei Lambsbread che volevo parlare. Era degli Sword Heaven, che diavolo. Anche loro vengono dall'Ohio, ma sono in due, senza chitarre né donne di mezzo. Hanno fatto un cdr chiamato "Beatings" che è una cosa semplicemente assassina, e i loro brani su "Pisspounder", la tripla compilation uscita su Deathbomb Arc (che è ottima e di cui parlerò altrove), spaccano il culo - giusto per non usare giri di parole. Sul serio, gli Sword Heaven
sono tra i migliori in circolazione. I due Aaron Hibbs (quello della copertina) e Mark Van Fleet sono sostanzialmente dei Mindflayer ancora più abbrutiti, visto che la strumentazione dovrebbe essere la stessa: batteria ed elettronica povera, insomma. La loro musica è pesante, lenta, ultradoom e dal passo industriale. L'inizio del lato di loro pertinenza è uno schianto di ferraglie a morto, poi si incazzano e si accaniscono come le bestie, solo che non riescono mai a uscire da quella cappa claustrofobica che è l'autentica dannazione di questa fanghiglia molesta e terminale, asfissiante e apocalittica, gravosa e ignobile. Il loro suono è maciullato sulle frequenze basse - niente fischi trapanatimpani, per capirci - la batteria pare fatta coi cassonetti e batte sempre marziale, il tipo che sbraita (perché uno dei due sbraita) annega in un urlo soffocato. Sono dei veri coatti, per capirci. Io li adoro. Se anche voi tollerate poco i Lambsbread, rimediatevi "Beatings", per cominciare. Ma rimediatelo, accidenti.
Torturing Love - S/t (Turgid Animal, 2007)

Documento interessante. Una collaborazione italo-cinese divisa a metà tra Fecalove (Toscana) e Junky (Shanghai), giusto per gettare nel calderone la fantomatica scena noise cinese. In mezzo comunque c'è Tisbor, che sta, per chi non lo sapesse, per "Tisborroinfaccia", ma niente di particolarmente truce, non preoccupatevi. Per dire: la prima traccia, lunga diciassette minuti, è solo field recordings. Che nella fattispecie sono tratti da registrazioni equamente divise tra Firenze e la solita Shanghai.
L'orecchio attento saprà quindi distinguere tra i riconoscibilissimi accenti toscani che qua e là affiorano tra le nebbie , e quelli... inglesi registrati a Shanghai. Ora, perché a Sganghai non si parli in cinese, vai a capire. E' una grande metropoli, la vetrina della Cina globalizzata, insomma: immagino cose di questo tipo. Curioso, perché notoriamente di inglesi se ne trovano a valanghe anche in Toscana, anche se - come è noto - perlopiù tra le amene colline che circondano le secolari città di Siena, Pisa, ecc ecc. E certo, anche nei centri storici. Immagino quindi che i field recordings fiorentini siano stati registrati in qualche reietta casa di periferia, là dove nessun turista anglofono metterebbe mai piede.
(Ora che ci faccio caso, ogni tanto pare di sentire un idioma strano, ma la mia scarsa consuetudine al fiorentino, nonché al cinese, me ne rende oscura la provenienza).
Lasciando da parte le concettose considerazioni sui flussi turistici sino-europei, il resto del cd è occupato da brevi schegge (quasi tutte sul minuto/minuto e mezzo) di sfrigolii harsh e distorsioni vocali, sempre registrate per metà a Firenze, per metà in Cina. La lingua stavolta è universale: un po' di sgorbi in libera uscita, qualche fischio, ronze, caciara, astrattismi ultranoise e via così. Devo dire che l'ascolto è gradevole, abbastanza d'atmosfera, niente di particolarmente efferato. E' uno di quei dischi che si possono tranquillamente lasciare in sottofondo, trattenuto com'è da una specie di sentore residuale (non so cosa significhi, ma rende bene l'idea).
La mia traccia preferita è la numero 8, che si lascia persino andare a un che di etnicizzante, del genere rito barbaro di serie B. La più lunga è invece l'ultima, la 17, che dura tre minuti e che alla fine è pure la più prevedibile.
La confezione del cd è serigrafata, dentro ci stanno un paio di cartoline, belline assai, di Tisbor.
Compratelo. Se l'ho scelto come prima uscita di questo blog, un motivo in fondo c'è. Costa sette euro, suvvia...

Etichette: