RANDOM DELICATESSEN
musiche brutte
mercoledì 16 gennaio 2008
Random Delicatessen goes PILLALOO
Visto che nuova grafica, eh? Fa cagare, sono d'accordo. Esperimenti di fine corso, così, visto che tanto questo blog è arrivato alla conclusione, dopo nemmeno un anno di premiata attività.

Magari qualcuno si è chiesto "perché questo qui non aggiorna più il sito? Nessun nuovo disco? Niente di cui parlare?". In realtà negli ultimi tempi ho dovuto affrontare un po' di problemi tecnici, ma soprattutto il nuovo anno è cominciato altrove, assieme a qualche altro soggetto appassionato pure lui di musiche brutte di vario ordine e grado. Per farla breve, insomma: Random Delicatessen cessa di esistere, e al suo posto c'è Pillaloo. Che è un altro blog, simile a quello che occupa il vostro monitor adesso, solo che è molto meglio.

E' meglio perché è a più mani. Al momento, si è in sei. Tutta gente che è abituata a trafficare con suoni scemi e osceni sulle pagine di rinomate riviste, webzine o che so io; sapete, i vari Canella, Savini, Ciarletta, Comunale, De Pellegrin... Diavolo, praticamente Pillaloo è un blog d'autore!

Il nome del blog, Pillaloo, è orribile, ne convengo. Però è il titolo di un pezzo degli Smegma, quindi tanta bruttezza è giustificata. Al momento contiene quattro interventi, e gennaio ancora non è finito: si spera che il ritmo, visto il numero dei partecipanti, si tenga alto. Mica come qui, che se andava bene compariva un post al mese.

Dentro Pillaloo trovate quello che è giusto trovare: dischi, cdr e cassette noise, weird, out, freak, tanto per sparare un po' di aggettivi a caso. Insomma, leggetelo. Dategli sotto. Fate come vi pare, ecco.

L'immagine di questo post è del buon Giovanni Canedicoda, ed è una delle due che compare sul nuovo blog (l'altra è del grandissimo Dylan Martorell). Lo ripeto per l'ultima volta: lasciate perdere Random Delicatessen e proseguite qui. Fine della trasmissione.
martedì 27 novembre 2007
Noisers - il libro
D’accordo, è un po’ che da queste parti si latita. Rimedio con una mossa ai limiti del regolamento, ma che volete farci: siamo qui (anche) per questo.

Bene, è qualche mese che è uscito. Mi hanno chiesto di fare delle presentazioni in pubblico che, onestamente, non saprei proprio come affrontare, quindi per il momento mi limito a proporlo virtualmente qui. È un libro, appunto. L’autore corrisponde al soggetto che cura queste pagine. Si chiama “Noisers – Tracce, percorse e geografie del nuovo rumore USA”. Parla del noise americano degli anni 2000, anno più anno meno, e si compone come segue:

C’è un’introduzione. L’introduzione dovrebbe spiegare il perché e il percome, e fondamentalmente parla delle origini, degli ispiratori, dei caratteri che hanno contribuito a fare del noise anni 2000 quella cosa che conosciamo un po’ tutti. Chessò: si dice della LAFMS e dei cdr, del japanoise e della riscoperta metal, della Broken Flag e dei fumetti, della Nuova Zelanda e delle mostre, del dopohardcore californiano e delle cassette, della outsider music e del No Fun Fest. Eccetera eccetera eccetera.

Poi: ci sono dei capitoli. Ogni capitolo corrisponde a una precisa scena/realtà geografica. Per ognuna di queste realtà geografiche si tenta di restituire una storia, un “da dove è nato/dove finisce”, e insomma sapete: cose come i nomi, gli eventi, i luoghi e così via. Ho recuperato persino dei pettegolezzi d’epoca, pensate. Le scene prese in esame sono: Providence, il Midwest, Brooklyn, il Northeast, la California.

All’interno di questi capitoli trovate delle schede. Le schede parlano dei gruppi. Del genere: i XY nascono nel ZX, il loro primo disco è YYY che contiene tra l’altro XXX, e si caratterizza per un suono XYZ, mentre il secondo è già più ZYX. I gruppi presi in esame sono (in ordine alfabetico): 16 Bitch Pile Up, Aaron Dilloway, Air Conditioning, Axolotl, Black Dice, Burmese, Burning Star Core, Can’t/Jessica Rylan, Dead Machines, Double Leopards, Eloe Omoe, Fat Worm of Error, Forcefield, Gang Gang Dance, Gang Wizard, Hair Police, Heathen Shame, Hive Mind, Inca Ore, John Wiese, Kites, Lightning Bolt, Magik Markers, Mat Brinkman, Metalux, Mindflayer, Mouthus, Mudboy, Nautical Almanac, Neon Hunk, Panicsville, Paper Rad, Pengo, Pleasurehorse, Prurient, Sightings, Terrestrial Tones, The Skaters, White Mice, Wolf Eyes, Yellow Swans. Ma poi in mezzo si dice anche di: Carlos Giffoni/Monotract, Kevin Drumm, Bastard Noise, Vertonen, Hototogisu, Sword Heaven, Devillock, Mammal ecc, e di etichette come Deathbomb Arc, Not Not Fun, Chondritic Sound e così via.

Il libro è uscito per la Tuttle Edizioni, il che significa Blow Up, ovviamente. Lo potete ordinare esclusivamente qui (non contattatemi per copie a prezzo scontato, che non posso aiutarvi, mi spiace). Sempre sul sito di Blow Up, nella sezione radiozine, trovate anche uno speciale che proprio dal libro prende le mosse. Lo scaricate in formato zip da qui.

Fatemi sapere se vi piace: in sostanza raccoglie e rielabora alcuni vecchi articoli comparsi sia su Blow Up che su altre ahimé dimenticate webzine (chi si ricorda di A-Z?), il tutto aggiornato e rivisto ai fini di una lettura-cesso il più possibile agevole. Ma ci sono anche intere parti completamente inedite, sia chiaro (che diavolo, qui occorre specificare tutto).

Curiosità: la scheda più lunga è dedicata ai Wolf Eyes: 8 pagine. Il totale delle pagine è 152. Alla fine c’è una discografia selezionata, e anche una videografia, una bibliografia e una webografia. Ci sono anche dei ringraziamenti: a soggetti come Michele Sica, Michele Arzano (aka Wolfanus), Federico Savini, Luca Collepiccolo, Bea. Che altro dire? Be’, posso dire che, personalmente, lo consulto spesso. In copertina, quei tipi che vedete incappucciati, sono (erano) i Forcefield. Ah, il libro costa 13 euro, giusto.

Bene, credo sia tutto. Buona lettura. E che Tuchulcha sia con voi: sempre.

giovedì 1 novembre 2007
Vegas Martyrs - The Female Mind (Troubleman Unlimited, 2007)
Che Dominick Fernow, ai più noto come Prurient, sia un fan di black metal e derivati, è cosa nota. Che fosse anche un chitarrista, oltre che un assassino del microfono a contatto, lo sapevamo pure. Che i Vegas Martyrs siano la sua risposta all’ultranoise per chitarre di gente come Air Conditioning, è ugualmente chiaro a chi ha presente le comparsate su 7” e compilation che hanno preceduto l’uscita in vinile (verde, a chi interessasse) di questo “The Female Mind”. Che personalmente ho aspettato con trepidazione, arrivando ai tempi a preordinarlo con qualcosa come due mesi di anticipo. Poi il postino arriva, molla il pacco, lo ascolto, dico “bello”, e lo mollo lì. Forse perché l’estate non era la stagione adatta?

Bene: adesso che piove, fa freddo, e ho comprato la prima confezione di noci&mandorle dell’anno, posso dirvi: “The Female Mind” è una delle cose più devastanti, deprimenti e oppressive del 2007. I Vegas Martyrs sono un trio, con Fernow accanto a Joe Potts (percussioni) e Richard Dunn (elettronicheria e “ringhio”), e a far male, fanno male. Suoni sempre saturi, strumenti ridotti in poltiglia, atmosfere da armageddon, ansia e bad vibrations a valanghe: per chi scrive, significa poco meno che “esaltante”, e personalmente la chiuderei qui. Però maledizione, sentite quel capolavoro di disperata distorsione che è Acamprosate: c’è persino un accenno di melodia torcibudella seppellito sotto detriti e detriti di scorie che sembrano un disco dei Mars lasciato a squagliarsi sotto il sole e mandato a 33 giri invece che a 45. Oppure Teenage Jesus che coverizza Burzum, o anche viceversa. O gli Ildjarn che si mettono a fare doom. O Whitehouse che intona una nenia folk.

“The Female Mind” sarebbe in realtà un nastro del 2005, che la Troubleman ha ristampato in edizione limitata, ma poco importa. È un grandissimo disco, anche se ovviamente piacerà solo a quei tre o quattro fissati di black noise. Ma loro lo sanno, di essere i giusti.

giovedì 11 ottobre 2007
Elephant Kiss "Introduce: Red Cat Green Cat" (Jk Tapes, 2007); Silver Daggers/Child Pornography - Split (Jk Tapes, 2007)
La JK Tapes continua a fare uscire materiali al solito belli e interessanti, quasi tutti su cassetta. I due che seguono sono fuori già da un po’ (da prima dell’estate, più o meno). Ne parlo in ritardo cercando di recuperare il tempo perduto, ma intanto sappiate che il catalogo della label di Peter Friel continua, nel suo piccolo, a ingrossarsi.

Gli Elephant Kiss da Seattle fanno un pop scemo e infantile tutto tastierine, voci stonate, drum machine tentennante e sapori vagamente queer. Per dire, i nostri Trouble Vs. Glue dovrebbero dargli un’ascoltata: è una musica da party, ecco, ma di quei party che vanno a finire nell’ebetaggine causa troppo alcol, troppe droghe, troppi video su youtube quando ormai sono le quattro di notte e non si sa come intrattenere gli astanti se non andando a scovare qualche improbabile spezzone della tv di stato bulgara. Super Magic Bicycles potrebbe essere l’hit di un nastro che di melodie, nonostante la brevissima durata, ne prevede in abbondanza; solo che queste sono sempre maltrattate, istupidite e rese snervanti da un’imperizia attitudinale che, giuro, alle volte sa essere deprimente (lo stesso tipo di depressione di quando dalla tv bulgara si passa a quel cantante amatoriale su TeleRomagna, per dire). Adorabili.

Lo split tra Silver Daggers e Child Pornography mette assieme due delle formazioni più amate dal recente underground USA, e infatti non delude. Che dire, il lato appannaggio dei primi è un piccolo culto, se non altro perché alle improvvisate strumentali si alternano passaggi remixati dallo stesso WKSM (che del gruppo è uno dei fondatori). Quindi ecco che i brani assumono movenze meccaniche stranite e alterate, con momenti che fanno quasi pensare a una mutant disco da cantina, e poi leggere scansioni industriali e inni per macchine in disuso. Divertente e un pizzico paranoico, accidenti. Sui Child Pornography non mi sbilancio: ho una piccola venerazione per questa band, ma alla prova dei fatti devo dire che i materiali sentiti finora, al di là delle fisse personali, non hanno mai brillato in “compiutezza”: e certo che questa deve essere l’ultima delle preoccupazioni dei californiani, che intanto continuano a sollazzare il sottoscritto con lunari vignette che sembrano pescate dall’epoca d’oro Subterranean, Minimal Man & co, per poi essere gettate nella spazzatura differenziata riservata a “alimenti e sostanze organiche”. Per chi non li conoscesse, la descrizione del gruppo dal nome che più pericoloso non si può in epoca di caccia alle streghe, potrebbe essere la seguente: semi no wave elettronica con voce femminile in no-fi e canzonettismo acido al sapore di catrame. Come fare a non volergli bene.

mercoledì 3 ottobre 2007
Mok Nok - Slugstorm (Smittekilde, 2007)
Come esordirebbe la Signorina Stecchinese, “oh ciao, non ci sentiamo da un sacco”. Ma d’accordo, in Rete tutto è eterno, quindi passo subito alle “nuove proposte”, e chiudiamola qui (l’intro petulante, intendo).

Allora, parliamo dei Mok Nok. Che sono un gruppo di casa Smittekilde, per cominciare. Anzi, sono il gruppo di casa Smittekilde, sorta di laboratorio/etichetta danese tenuto in piedi da Zven, direttamente da Copenaghen. In catalogo solita tonnellata (abbastanza contenuta, invero) di fanzine, libri serigrafati, edizioni limitate, poster e – ci mancherebbe – pure qualche disco. Intanto però vi consiglierei di partire da quel piccolo capolavoro che è il libro dedicato al “cibo per gatti”. I nostri amatissimi amici felini (io ne ho tre, mia madre quattro, mio padre nove, giuro) in realtà non ne escono tanto bene: più che altro le illustrazioni li raffigurano come sgorbi mostruosetti anzichenò, e non parliamo del cibo in questione, un tripudio di scatolette che di stampa in stampa si trasformano in osceni blob color merda. Ma dovevamo parlare dei Mok Nok, giusto.

Dunque, il loro primo cd era un bell’esempio di pseudorock disarticolato con pure un’infamissima cover dei Velvet Underground. Questo secondo album, in rigorosa edizione vinilica, complica di molto la faccenda, fermo restando il mongolismo di base del duo (che oltre a Zven, contempla anche tale Soren).
Sostanzialmente si tratta di un freak-rock malaticcio e barcollante, che non infierisce mai e che piuttosto si tiene su binari weird-no-psichedelici, giusto per assecondare gli appassionati di lessico paramusicale. Certo, ogni tanto interviene qualche rasoiata a disturbare l’ascolto, ma la cosa interessante è che i brani sembrano sempre piuttosto “pensati”: forma e struttura degli stessi restano riconoscibilissime, l’improvvisazione occupa uno spazio si direbbe secondario, e a dominare è un sentimento stralunato, infantile, e un po’ acidello, ecco. Il paragone, sarà per la prossimità geografica, mi viene per esempio con l’ultimo Kemialliset Ystavat e relativo giro di assestamento finlandese: solo che qui il tutto è svolto in maniera “minore”, svogliata, direi pure dislessica. Gli strumenti sono abbastanza vari (oltre ai due Zven e Soren intervengono diversi altri collaboratori): violini e organetti accompagnano il consueto canovaccio chitarra/batteria, cosicché alla fine ne esce un suono colorato e piuttosto eterogeneo, che di tanto in tanto riesuma ascendenze kraute e pure qualche aspirazione free. La title-track in chiusura parte direttamente per la tangente Neu!, ed è anche il brano più lungo (dieci minuti), ma altrove affiora un chiaro spirito pop/sbilenco che fa di perle come Muzzleknines e Kuraku Naru Mae Ni dei piccoli anthem, perché no.

È un bel disco questo Slugstorm, veramente. Pensate, se ne è occupato anche Julian Cope.

In ultimo, tornando alle faccende private: chi è a Roma lunedì 8, non si dimentichi Spasticalia.

mercoledì 29 agosto 2007
Nonhorse - “My First Moth/Gun Tears” (Tanzprocesz, 2007)
Mi è già capitato di parlare altrove (sul solito Blow Up, per intenderci) della scena “no/ out / noise / brut / quellochevoletevoi” francese. È, probabilmente, l’unica in Europa che può tenere testa ai materiali provenienti dagli USA, e questo non tanto – o non solo – per la qualità delle uscite in sé, quanto per tutto l’apparato estetico e di immaginario che circonda quella galassia di nomi, situazioni, idee che va da Parigi a Marsiglia, passando per Bordeaux. Pensate a Le Dernier Cri, tanto per capirci. Pensate a Bimbo Tower, a Un Regard Moderne, a La Miroiterie. E pensate anche a Tanzprocesz, perché no.

Dell’etichetta parigina, ancora una volta, mi sono occupato non molto tempo fa, sulle consuete pagine del consueto mensile musicale. A gestirla ci pensa Jonathan, che da parte sua suona anche nei Placenta Popeye (per loro in uscita un book+cdr targato proprio Le Dernier Cri), e ogni tanto a dargli una mano ci pensa Jonas, dalla sua artista visivo/fumettista ecc, che cura una minuscola fanzine chiamata Nazi Knife e che fa qualche comparsata anche sull’ultimo Hopital Brut. La Tanzprocesz fino ad ora non ha pubblicato tantissime cose, ma già si è ritagliata un seguito presso certi ben noti canali underground – europei e non – che l’hanno infine portata a produrre materiali provenienti un po’ da ogni dove. Soprattutto è forte il legame con gli Stati Uniti sia degli Slicing Grandpa (gruppo storico che all’etichetta francese deve molto in termini di riscoperta), sia del giro Deathbomb Arc & co. (cdr per Gang Wizard, Kevin Shields ecc), per non dire delle uscite a nome Robedoor e ovviamente Smegma.

L’ultimo cdr in catalogo è quello di Nonhorse, da Brooklyn, ai più noto col vero nome di Gabriel Lucas Crane, già nei Wooden Wand & The Vanishing Voice. Se avete presente i suoi materiali apparsi su Release The Bats e Fuck It Tapes, o se conoscete un minimo il personaggio, potete immaginarvi i contenuti anche di questo piccolo gioiello di packaging homemade (confezione in cartone che una volta che la apri spunta il “pop up”: avete presente quei libri per bambini, no?): ecco allora un’elettronica semirock improvvisata, molto scarna, grezza e sgraziata, e ovviamente non di rado psichedelica, che ogni tanto fa pensare a qualche concretismo abbrutito, e ogni tanto si diluisce in lente, nebbiose, figure sullo sfondo. Crane parla di Nonhorse come di un “Philip Glass crossed with atari 2600 or the sound of a million fingers on a million chalkboards”: solite definizioni altisonanti che non significano niente e che per questo dicono tutto. Da parte mia, in questo “My First Moth/Gun Tears” mi è parso addirittura di sentire echi del Roberto Cacciapaglia periodo “Sonanze” (ascoltate Hollendek DDD), e di sicuro posso dire questo: 100 volte meglio Nonhorse che una qualsiasi cosa a firma Vanishing Voice.

E adesso tutti a Parì.

mercoledì 22 agosto 2007
Long Long Chaney tribute

Da ieri, la trevigiana Long Long Chaney non esiste più. Niente per cui rattristarsi, per il semplice fatto che a sostituirla ci penserà una nuova etichetta chiamata – a quanto pare – Second Sleep, le cui prime uscite sono già dietro l’angolo. E però ugualmente mi dispiace, se non altro perché io, la Long Long Chaney, avevo cominciato a frequentarla solo da poco. Quindi mi sembra giusto celebrarne le gesta in extremis, raccontando di quelle poche uscite che conosco personalmente, anche se di altre mi riservo di parlarne (al solito) altrove.

Tre nastri, quindi. Il primo è un po’ vecchiotto (risale, se non sbaglio, alla fine del 2006), ma è il mio preferito e quindi non posso che cominciare da lui: il canadese Bob McCully, meglio noto come Women In Tragedy, è una specie di versione doom degli Skaters. “Daughters of Isolation” si apre con un lato A che è un guazzabuglio di voci e sfuriate noise in lontananza, registrato malissimo e per questo ancora più cattivo, piacevole come un dissanguamento forzoso. Il lato B parte come un mantra vocale che monta lento su spirali vieppiù rumorose, la grana diventa più spessa, i delay si allungano, e alla fine a restare è solo una nebbia malefica. In giro ho scovato paragoni con Xasthur e Leviathan, il che in fondo ci sta tutto: le atmosfere in fondo sono quelle, un’eco distorta di black metal passata in centrifuga e messa ad essiccare al buio, qualsiasi cosa voglia dire quanto appena scritto. Grandioso.

Knife City è un altro progetto da considerarsi concluso (il tipo, tale Brenden, è al momento impegnato come Drenches e suona anche in gruppi con nomi quali Caged Virgins, Abysmal Rain e Certain Failing). Il suo “Swoon Tree” è una prova abbastanza classica di pura power electronics old school: venti minuti di fischi e rimbombi, che se su un lato procedono per ronze tendenti all’infinito, dall’altro vanno molto più a singhiozzo, incartandosi in pause, spezzettamenti e balbuzie da giorno del giudizio. Brenden sostiene di essere influenzato soprattutto da Lasse Marhaug e Pain Jerk, ma secondo me un poster in camera di M.B. e Mathausen Orchestra ce l’ha.

E infine veniamo al padrone di casa, Kam Hassah. Delle tre cassette, quella a suo nome (“Heavy Curtains” il titolo) è quella che ascoltato di più. La musica di Kam Hassah è un soffio pesantissimo che pare fatto di nulla, tutto un fluttuare sottotraccia di fuliggine e polveri sparse, che per comodità potremmo ridurre alla voce “dark drone”. Va ascoltata a volume alto per comprenderne le trame e i giochi di ombre, eppure il sottoscritto preferisce tenersela in sottofondo, e anzi, posso dire che proprio in questi giorni – passati, per motivi che non sto a spiegare, a ripassare argomenti quali Kriminal, Umberto Lenzi e Antropophagus – è stata una colonna sonora ideale. Chissà se l’ex signor Longlongchaney, futuro mr Second Sleep, apprezzerà. Intanto date un’occhiata qui, se volete vederne le gesta dal vivo.